Quando si è iniziato a parlare di abusi sessuali nella Chiesa? Come sono stati gestiti i primi “scandali” e come si interviene oggi? Quando e perché è cambiato qualcosa? Esiste un identikit dell’abusatore del Clero? E in Svizzera qual è la situazione?

ASPI ha intervistato Markus Krienke, Professore di Filosofia moderna ed etica sociale alla Facoltà di Teologia di Lugano (nella foto), sul terribile fenomeno degli abusi sessuali in ambito ecclesiale, per comprendere come possa esserci stata tanta omertà in passato, cosa si sta facendo nel presente e quali prospettive ci sono per il futuro, a protezione dei minori di tutto il mondo. 


Quando si è iniziato a parlare di abusi sessuali nella Chiesa?

Il primo riferimento lo troviamo nel 1985, quando il domenicano Thomas Doyle stese un rapporto, dopo il caso clamoroso di 37 ragazzi abusati da un prete nella diocesi di Lafayette (Lousiana), chiedendo ai vescovi statunitensi di investigare con urgenza.

Nel 2002 nella diocesi di Boston si scoprirono numerosi casi coperti dall’autorità ecclesiastica, ma si pensava ancora di poter parlare di casi singoli e di problemi “regionali” tra gli Stati Uniti, l’Australia e l’Irlanda.

Fu solo nel 2004, persi ormai anni preziosi, che finalmente uscì il rapporto “John Jay” che elencava casi di abusi nel 95% delle diocesi! Seguirono i due rapporti irlandesi “Ryan” e “Murphy” del 2009, che fecero definitivamente comprendere che non si poteva più parlare di singoli casi e che la strategia ecclesiastica dell’occultamento non avrebbe retto per ancora molto tempo.

 

Occorre aspettare il 28 gennaio 2010 con la scoperta dei casi del Canisius-Kolleg a Berlino, però, per poter affermare che se vi fosse una presa di consapevolezza su due questioni centrali: primo che gli scandali degli abusi sessuali hanno a che fare anche con le strutture interne della Chiesa stessa e che la stessa istituzione rappresenta il primo ostacolo nel rilevare i casi. Secondo che bisogna rivolgere l’attenzione alle vittime. Ne seguì uno studio – commissionato immediatamente dai vescovi tedeschi – pubblicato nel 2018 (“MHG-Studie”) – che rivelò dati spaventosi: 3’677 adolescenti abusati (di cui 62,8% maschi) da 1’670 chierici tra il 1946 e il 2014. Numeri minimi se si considerano i dati sommersi: i lavori della commissione, infatti, furono fortemente ostacolati dalle diocesi – fino alla parziale distruzione di materiale.

Ora i vescovi tedeschi hanno incaricato una seconda commissione e si prevedono i risultati tra cinque anni – 16 anni dopo che sono stati scoperti i primi casi.

 

All’inizio come sono stati gestiti i primi “scandali” dalla Chiesa in generale (Santa Sede, ma anche varie diocesi e chiese)?

Fino a poco tempo fa, la lente era unicamente rivolta al singolo prete abusante e all’istituzione Chiesa, la cui immagine era da “salvare”. La vittima non era presa sul serio, ma anzi considerata indirettamente “colpevole”. Non si faceva nulla: il problema era “inquadrato” e “risolvibile” con l’omertà da entrambe le parti coinvolte. In questa costellazione ciò che è un crimine nei confronti di una persona minorenne era ridotto a una colpa del prete abusatore, commessa più verso l’istituzione che non verso la vittima, per cui l’istituzione faceva di tutto per reinserirlo. In altre parole, la gestione degli scandali da parte della Chiesa in passato, si riduceva ad una “spiritualizzazione” del crimine e, di conseguenza, ad una grave lesione del diritto della vittima. Si ignorava totalmente che si trattava di un abuso di potere da parte del prete e, a peggiore le cose, c’era l’assenza dello Stato e delle magistrature, per cui le vittime restavano senza attenzione, protezione o risarcimento alcuno.

Nell’opinione pubblica, però, andò crescendo l’idea che la Chiesa non potesse più supportare le sue idee morali nella società e al contempo avere “comprensione” nei confronti di preti criminali.

Da parte della Santa Sede, il grande cambiamento iniziò con Benedetto XVI, a cui è riconducibile la parola d’ordine della “zero tolleranza”. Certamente già Giovanni Paolo II iniziò a sensibilizzare i vescovi, ma fu Ratzinger non solo ad introdurre le prime norme vincolanti nel trattamento dei casi di abusi, ma anche a processare il fondatore dei Legionari di Cristo, che il Papa polacco aveva coperto. Ratzinger ha prolungato la scadenza della prescrizione oltre ogni regolamento civile nel mondo, chiese scusa soprattutto nel suo viaggio in Irlanda e responsabilizzò le conferenze episcopali. Proprio per questo non si comprende perché, da Papa emerito, nel 2019 relativizzò la responsabilità della Chiesa, indicando nella rivoluzione del ’68 il vero motivo per questi crimini. Qualcuno ricorda anche che lui stesso, da vescovo a Monaco, reinserì per ben due volte un prete abusatore nel servizio pastorale.

 

Quando è iniziato a cambiare qualcosa e perché?

Il cambiamento è stato “forzato”, bisogna dirlo, per la pressione pubblica: solo dalla società civile poteva derivare la spinta a spaccare il fitto sistema di gerarchia, clericalismo, celibato ed omertà che – sebbene non sia la diretta causa – ha protetto i preti abusatori. Inoltre, il cambiamento è avvenuto quando l’istituzione Chiesa ha capito che protezione e cura vanno rivolte in primo luogo verso la i/le minorenni e le vittime. Ciò significa garantire alla giustizia la sua indipendenza: collaborazione con le istituzioni civili di giustizia – con Papa Francesco è d’obbligo – e introduzione e rispetto di regole interne. Solo con Papa Francesco, infatti, la fattispecie dell’abuso dei minorenni è stata sciolta dalla sua classificazione come infrazione della promessa di celibato, ossia dalla logica delle norme precedenti.

Un importante “cambiamento di paradigma” nel trattamento di questi casi è il fatto che lo stesso Papa Francesco abbia levato il “segreto pontificio” e che abbia introdotto il dovere di segnalarli alla Congregazione per la Dottrina della Fede, obbligando tutte le diocesi ad introdurre sistemi ed istituzioni per la denuncia dei casi. Inoltre, egli ha compreso che la migliore prevenzione consiste in un rinnovamento più generale della Chiesa, perseguito innanzitutto con l’introduzione di laici – donne comprese – in posizioni decisionali. Anche una magistratura amministrativa indipendente all’interno della Chiesa potrebbe essere un’idea costruttiva.

 

Esistono delle statistiche in merito al fenomeno? E se sì, come valuti questi numeri in relazione al resto della società?

La MHG-Studie ha rilevato che in Germania il 5% dei preti ha commesso abusi nel periodo indagato (1946-2014). Il numero scende a 2% per i preti negli ordini religiosi, ma comunque in un monastero su tre sono stati registrati dei casi di violenza sessuale. Senza contare, come detto, i dati sommersi. L’argomento di molti conservatori che i dati sono in linea con la media della società non è assolutamente valido, per l’autorità morale che la Chiesa reclama e le numerose istituzioni educative e caritative che gestisce. Per un’istituzione che in passato ha identificato la fede cristiana con una determinata morale sessuale, anche un solo caso costituisce un grave problema di coerenza. Non a caso, la fiducia della popolazione nella Chiesa è letteralmente crollata.

 

Esiste una sorta di identikit dell’abusatore del Clero?

Lo sguardo sull’abusatore non deve fare astrazione dal contesto: egli è sempre anche espressione di un sistema “ammalato”. Ciò non diminuisce però la sua responsabilità e l’importanza di comprendere chi è l’abusatore, pur nell’eterogeneità degli autori di questi crimini. Siccome solo un quinto dei preti abusatori adempie anche i criteri diagnostici di pedofilia, il motivo principale non è un disturbo sessuale, ma piuttosto un disturbo della personalità e immaturità sessuale. Sfruttamento di occasioni, la propria posizione di autorità e il sapersi protetti dalla struttura gerarchica sono pertanto i fattori esterni che fanno sì che un prete diventi abusatore, quando i disturbi menzionati raggiungono un determinato livello, cioè ad un’età avanzata rispetto ai casi nella società: gli studi indicano, infatti, un’età di 40-42 anni. A questa valutazione corrisponde anche il fatto che la metà dei preti accusati ha abusato una sola volta, e che non sia possibile identificare un profilo specifico delle vittime.

Il celibato – insieme alla limitazione del sacerdozio a soli maschi – non è causa diretta degli abusi, ma uno dei fattori delle restrizioni per la Chiesa nel reclutamento di futuri preti e, inoltre, uno dei motivi per cui molti preti personalmente e sessualmente non maturi possono esimersi di sviluppare un rapporto positivo con la propria sessualità.

 

Quali sono stati e quali sono i passi intrapresi dalla Chiesa per lottare contro questa piaga?

Clericalismo o gericalismo, celibato ed esclusione strutturale di laici (donne) sono certamente fattori che favoriscono il fenomeno degli abusi, ma non sono cause dirette e, pertanto, non si dovrebbe insistere su riforme in questa direzione come ricetta risolutiva. Spingere verso queste riforme per rendere la Chiesa più giusta e trasparente dovrebbe essere un fine in sé, che poi avrebbe come effetto certamente anche una maggiore prevenzione nella lotta agli abusi.

Come ho già detto, l’aver compreso il bisogno di riforme strutturali mirate al rilevamento, al rispetto delle vittime, a punizioni e risarcimenti nonché alla PREVENZIONE è stato il punto di svolta negli ultimi anni. Con concretizzazioni normative del rispettivo codice generale del diritto canonico sin dagli anni 2000, la Chiesa ha cercato di diventare più fedele alla sua responsabilità educativa e morale. Si pensi innanzitutto al Motu proprio “Vos estis lux mundi” di Papa Francesco (2019) che impone ai vescovi di segnalare tutti i casi a Roma e di istaurare uffici dove le vittime possono rivolgersi, nonché di rispettare e favorire la giustizia civile.
Uno dei problemi più urgenti è che nella gerarchia non esiste ancora una posizione unica e universale per come trattare i casi di abuso, nonostante l’evidente situazione migliorata a livello di procedure e normative. Più si realizzano questi passi, più si comprende, però, che oltre la giustezza delle norme, ci vuole anche giustizia: nei confronti delle vittime, e anche dei preti abusatori. Ancora oggi è possibile che preti abusatori cambino diocesi e vengano accolti laddove il vescovo non applica le norme di Papa Francesco oppure non consegna i casi alla giustizia civile. Certamente è ancora evidente che la Chiesa vuole rimanere padrona dei processi e segue ancora spesso la strategia di “camuffare” gli scandali. Indicare persone e strutture, è ancora un compito arduo per le commissioni incaricate interne o esterne e molte magistrature non applicano tutti i mezzi a disposizione quando si tratta di abusi nella Chiesa.

 

E in Svizzera? Come ci si sta muovendo?

Proprio la Svizzera conosce uno dei casi più tremendi di abusi: il frate cappuccino Joel Allaz che per 40 anni ha abusato di decine di minorenni, evidenzia anche la grave negligenza dei responsabili nella gerarchia. Oggi la questione degli abusi è nelle mani del vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo, Charles Morerod – attualmente accusato di aver coperto un caso in passato – che nel 2016 ha tenuto a Valère una cerimonia di preghiera e penitenza per le vittime: un atto che ha ripreso e attualizzato l’ammissione di colpe avvenuta nel 2000, a seguito del quale due anni dopo i vescovi svizzeri si sono dati norme vincolanti, continuamente aggiornate e rafforzate, l’ultima volta nel 2019. Con ciò, la Conferenza dei vescovi svizzeri – che nel 2010 ha assunto ufficialmente le sue responsabilità – è stata tra le prime a varare norme non solo per trattare i casi passati ma anche per come prevenirli in futuro.

Fino al 2017, sono stati denunciati 250 casi rispetto al periodo dal 1950 e ogni anno i dati vengono aggiornati sul sito dei vescovi svizzeri. Le diocesi con più casi sono Basilea e San Gallo, un caso proveniva da Lugano.

Dall’impegno dei vescovi svizzeri, si comprende che hanno preso sul serio la minaccia di questa crisi degli abusi, ossia che oggi per la Chiesa conta più che mai: opus iustitiae pax – senza giustizia non troverà più la “pace” con la società.

 


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